La capanna di Ted Kaczynski, il criminale meglio conosciuto come Unabomber, è un oggetto paradossale: costruita e abitata dal suo artefice per vivere in disparte, lontano dal mondo, non soltanto non ha mai cessato, dal 1996 ad oggi, di essere riprodotta, ma è stata anche spostata, esposta, ricostruita, copiata e contraffatta. La casetta, un tempo situata nel cuore delle foreste del Montana vicino alla cittadina di Lincoln, è diventata un segno polivalente. Separata dal suo artefice, la capanna rappresenta ben più di un residuo: è un elemento che insieme attira e perturba, una strana reliquia, ed è soprattutto un oggetto che non smette di interrogarci. D'altronde, il suo statuto stesso non è semplice da definire. Che significa, infatti, la persistente presenza mediatica e artistica di questo artefatto di per sé piuttosto banale? Perché riappare di continuo? Che ne è della violenza che conserva in sé, una volta che il suo autore è stato condannato alla detenzione a vita in un carcere di massima sicurezza? La capanna di Unabomber, trasformata in metafora culturale e discorsiva, appare come un potente simbolo della violenza contro la violenza.
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